L’affermazione che viene dal lontano Giappone è di quelle che stonano alle orecchie degli italici dirigenti e del top management del mondo occidentale.

“Dirigenti e supervisori non servono; gli staff sono un costo; l’unico responsabile è il presidente”.

Yoshihito Wakamatsu | Foto Adnkronos

Yoshihito Wakamatsu | Foto Adnkronos

Queste sono le parole di Yoshihito Wakamatsu, il guru del sistema produttivo TPS (Toyota Production System), che si fa portatore di una discutibile filosofia organizzativa.
Secondo il “guru” il migliore dei sistemi è quello che azzera le gerarchie e coinvolge i dipendenti con l’obiettivo di creare una sorta di “sistema nervoso autonomo” nell’azienda. “Non si tratta di anarchia“, tiene a puntualizzare, “ma di un sistema di redistribuzione delle responsabilità che agisce con una sorta di indipendenza intrinseca”. Inoltre, secondo Yoshihito Wakamatsu, se le piccole medie imprese rimarranno ancorate a modelli rigidi impostati dall’alto, avranno sempre maggiore difficoltà a competere e a sopravvivere.

Ci chiediamo: ha ragione il leader della Toyota a sostenere che il ruolo di manager e dirigenti sia superfluo?

A nostro parere, la risposta è che dipende da due variabili:

  • il contesto culturale/aziendale;
  • gli attributi del “Presidente”.

Quello descritto da Yoshihito Wakamatsu è un modello che può essere applicato con successo alle organizzazioni caratterizzate da un forte senso di collaborazione (come quelle giapponesi); con incerti esiti, invece, quando impatta con gli antagonismi generati dal forte istinto individualistico delle gerarchie organizzative tipiche delle aziende occidentali, in particolare quelle che hanno radici nella cultura mediterranea.
I diversi effetti dell’assenza di figure manageriali in campo aziendale sembrano dipendere non solo da fattori contestuali e individuali ma soprattutto da variabili culturali, dal diverso modo in cui i popoli orientali e occidentali percepiscono e valutano l’esercizio decisionale. Esiste una vasta letteratura scientifica che sottolinea la differente prospettiva nei confronti dei ruoli o delle figure di “potere”, che secondo gli studiosi dipenderebbe dal diverso livello di indipendenza del Self[1].
In culture come quelle asiatiche, gli individui posseggono un modello del self inter-dipendente: cioè percepiscono l’individuo come strettamente interconnesso con gli altri membri del gruppo di appartenenza. Cruciale pertanto, non è la distinzione fra sé e gli altri ma fra in-group e out-group. L’obiettivo fondamentale in queste culture è quello di mantenere l’armonia del gruppo; di conseguenza, compiere scelte individuali riveste un valore minimo, potendo costituire addirittura una minaccia per l’organizzazione. Al contrario, nelle culture occidentali gli individui posseggono un modello del self indipendente e compiere scelte autonome diventa l’opportunità di esprimere il proprio senso di libertà e autodeterminazione[2]

Al di là delle differenti prospettive culturali, siamo abituati a generazioni di  manager che impartiscono ordini imponendo il loro controllo; l’opposto di quello che bisognerebbe fare secondo altri paradigmi di organizzazione aziendale, orientati ad ottenere il massimo risultato in termini di puntualità e flessibilità del processo decisionale. La maggiore informazione a disposizione del consumatore, causa di sensibili e rapide variazioni e moltiplicazioni degli influenti d’acquisto sembra dar ragione a modelli organizzativi più puntuali e flessibili come quello proposto da  Yoshihito Wakamatsu; ma applicarlo tout court senza considerare il contesto culturale delle aziende può rivelarsi fatale. Nel nostro ecosistema di business, fortemente caratterizzato e condizionato a tutti i livelli gerarchici dall’indice di convergenza dell’interesse personale con quello aziendale, la figura del manager dovrebbe invece essere quella di “portatore di conoscenze e competenze” che ne giustifichino il potere decisionale, oltre che lo stipendio.

In altre parole, il manager ha scopo e utilità per la sua capacità di sintesi delle dinamiche interne ed esterne all’azienda le quali, di conseguenza, individuano nel suo ruolo la sede più qualificata dei processi decisionali.

Una bella (ma obsoleta) immagine, capace di rendere vividamente il lavoro della dirigenza, è quella del “manager giocoliere” che si destreggia allo stesso tempo con parecchi “oggetti” sospesi e in movimento. Non dimentichiamoci che i manager si occupano quotidianamente di risorse umane, finanziarie, tecnologiche, informazioni da analizzare e classificare; attività, com’è facile intuire, tutte importanti al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Passando dalla metafora a una definizione più formale, il management viene descritto come un processo che consiste nel lavorare con e attraverso gli altri per raggiungere gli obiettivi organizzativi in modo efficiente ed etico.[3]
A nostro parere, i dirigenti dovrebbero allinearsi mentalmente e professionalmente a una gestione partecipativa e cliente-centrica, estendendo le prerogative che si riconoscono al “Cliente” a tutti i suoi collaboratori. Questa scelta, che assimila i collaboratori e le altre funzioni aziendali con cui si relaziona il manager ad una sorta di “cliente interno”, si riconosce nelle politiche relazionali caratterizzate da un significativo ascolto dell’interlocutore e, quando possibile e opportuno, dalla condivisione delle decisioni. Un tipico processo organizzativo che può rappresentare un ottimo esempio è la formulazione di un budget secondo la logica del bottom-up (dal basso verso l’alto).

Tutta un’altra questione è invece la “stupidità dirigenziale“, alla quale sembra riferita la proposta del guru giapponese.
Non vi è dubbio sul fatto che l’incompetenza e l’arroganza di certi dirigenti conducano al fallimento di buone idee di business; tuttavia, crediamo che tale “stupidità” non si elimini abolendo le posizioni di leadership, anche perché potrebbe verificarsi che l’imputato sia proprio quel “Presidente” che Yoshihito Wakamatsu designa come il solo necessario-responsabile del sistema organizzativo. Un esempio emblematico di esasperato “presidenzialismo” si riscontra nel caso aziendale di Mivar.
Tornando alla domanda che ha generato la riflessione dell’articolo, manager sì, ma competente e capace di far crescere una sana e collaborativa cultura d’impresa a tutti i livelli dell’organizzazione.

Volendo spezzare una lancia a favore dei manager, dovremmo chiederci quanto le aziende investano in formazione e metodiche di analisi e gestione del business. Manager e collaboratori, per quanto virtuosi nel condividere e promuovere Vision e Mission aziendali, necessitano di strumenti che nella cultura d’impresa italiana sono scarsamente utilizzati. È il caso delle metodiche di marketing: particolarmente efficaci per stimolare collaborazione e condivisione a tutti i livelli delle gerarchie aziendali, in quanto “obbligano” a una forte e condivisa produzione d’informazioni. Un modello organizzativo vale l’altro, e vale molto poco se l’azienda non è in grado di allineare prodotti, servizi e comportamenti alle Strategie di Mercato definite, conoscere il Potenziale di Marketing dei prodotti e del proprio Brand, pianificare i Costi, i Ricavi e gestire a sistema le Relazioni con clienti, fornitori e stakeholder.

In conclusione e a prescindere dal modello organizzativo, senza efficaci strumenti di pianificazione e gestione del business dubitiamo fortemente che una spontanea  e decentrata attività decisionale determini il successo di un’impresa.

 


[1] Il Self è definibile come l’insieme delle qualità essenziali che distinguono una persona dalle altre.

[2] Markus e Kitayama, Cultural variation in the self-concept  in Culture and the self: Implications for cognition, emotion, and motivation, 1991.

[3] Daft, Organizzazione aziendale, Apogeo, 2007.